Page 32 - Il vaso di Pandora XXII n.2 2014
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ripristinarsi di un contatto emotivo il terapeuta propone al bambino di
continuare il gioco con il genitore. Quello che qui è importante non è
cogliere il significato che l’oggetto emerso ha per il bambino, ma il
superamento dell’impasse. In un secondo momento è però possibile
proporre al bambino di utilizzare le sei parti del foglio come fossero
vignette di una storia. Il coinvolgimento diretto del terapeuta prima e
del genitore poi permette al bambino di sentirsi maggiormente
contenuto e facilitato nell’entrare nuovamente in relazione, potendo
così continuare la consultazione.
Pellizzari (2011), nel lavoro con gli adolescenti utilizza quella che del
gioco dello scarabocchio può essere considerata una variante che serve
a tirare fuori i ragazzi dalla passività, a dare un ritmo allo scambio
terapeuta-paziente, a permettere il gioco. Si prepara sulla scrivania un
foglio grande di carta con matite e penne messe sopra, nel primo
incontro si dice al ragazzo, magari iniziando già a scarabocchiare
qualcosa sul foglio: “Guarda che qui possiamo parlare, possiamo anche
disegnare… Se vuoi puoi scarabocchiare anche tu…”. Mettersi a
34 scarabocchiare su questo foglio mentre si parla con il paziente
permette di non dover continuare a guardalo in faccia rischiando di
risultare invadenti/intrusivi; è come se il terapeuta fosse un po’ intento
a fare qualcos’altro. Questo modo di lavorare favorisce la
comunicazione, che alle volte viene inibita dal vis-à-vis; similmente al
lettino permette di non dover reggere lo sguardo per l’intera durata
della seduta. L’introduzione di un’attività terza scalza la focalità
simmetrica (che è inibitoria), lo scarabocchio può quindi essere un
semplice diversivo che favorisce la comunicazione, ma può anche
diventare un elemento espressivo e simbolico. Mano a mano che
emergono degli elementi dal racconto del paziente, il terapeuta può
scriverli o raffigurarli. Ad esempio il paziente può dire “Ci sono dei
momenti in cui mi sento vuoto…”, al ché il clinico può dire “Ah,
scriviamo questa parola!”, e scrive “vuoto” sul foglio. Man mano che il
paziente racconta, il terapeuta scrive delle parole chiave. Un altro
esempio potrebbe essere il seguente: “C’è la prof. di mate che è una
continuare il gioco con il genitore. Quello che qui è importante non è
cogliere il significato che l’oggetto emerso ha per il bambino, ma il
superamento dell’impasse. In un secondo momento è però possibile
proporre al bambino di utilizzare le sei parti del foglio come fossero
vignette di una storia. Il coinvolgimento diretto del terapeuta prima e
del genitore poi permette al bambino di sentirsi maggiormente
contenuto e facilitato nell’entrare nuovamente in relazione, potendo
così continuare la consultazione.
Pellizzari (2011), nel lavoro con gli adolescenti utilizza quella che del
gioco dello scarabocchio può essere considerata una variante che serve
a tirare fuori i ragazzi dalla passività, a dare un ritmo allo scambio
terapeuta-paziente, a permettere il gioco. Si prepara sulla scrivania un
foglio grande di carta con matite e penne messe sopra, nel primo
incontro si dice al ragazzo, magari iniziando già a scarabocchiare
qualcosa sul foglio: “Guarda che qui possiamo parlare, possiamo anche
disegnare… Se vuoi puoi scarabocchiare anche tu…”. Mettersi a
34 scarabocchiare su questo foglio mentre si parla con il paziente
permette di non dover continuare a guardalo in faccia rischiando di
risultare invadenti/intrusivi; è come se il terapeuta fosse un po’ intento
a fare qualcos’altro. Questo modo di lavorare favorisce la
comunicazione, che alle volte viene inibita dal vis-à-vis; similmente al
lettino permette di non dover reggere lo sguardo per l’intera durata
della seduta. L’introduzione di un’attività terza scalza la focalità
simmetrica (che è inibitoria), lo scarabocchio può quindi essere un
semplice diversivo che favorisce la comunicazione, ma può anche
diventare un elemento espressivo e simbolico. Mano a mano che
emergono degli elementi dal racconto del paziente, il terapeuta può
scriverli o raffigurarli. Ad esempio il paziente può dire “Ci sono dei
momenti in cui mi sento vuoto…”, al ché il clinico può dire “Ah,
scriviamo questa parola!”, e scrive “vuoto” sul foglio. Man mano che il
paziente racconta, il terapeuta scrive delle parole chiave. Un altro
esempio potrebbe essere il seguente: “C’è la prof. di mate che è una