Page 84 - Il vaso di Pandora XXII n.2 2014
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l’impatto che il trauma, in questo caso la malattia oncologica, ha 89
avuto sul singolo e sulla sua famiglia. Se una diagnosi tumorale è di
per sé un evento altamente traumatico, quando la genesi della
patologia è dovuta all’esposizione a un agente ambientale nocivo e
all’azione inumana dei proprietari di una fabbrica, la qualità
dell’esperienza vissuta si connota ancor più negativamente (Varvin,
2013a). Essa porta in campo emozioni intense che, a causa del
carattere di imprevedibilità, incomprensibilità e drammaticità
dell’insorgere della malattia, mettono a dura prova le capacità del
singolo. Per difendersi dall’irruenza distruttiva del trauma, il soggetto
cerca allora strategie che gli consentano di sopravvivere psichicamente
all’evento, strategie che se da un lato mirano a evitare il dolore che
deriverebbe da una nuova esposizione al trauma, dall’altro
rappresentano “tentativi abortiti di mentalizzare e integrare le esperienze
traumatiche all’interno di un ambiente interno e/o esterno percepito come
minaccioso” (Rosenbaum & Varvin, 2007).
Come vittime, le persone che incontravamo nel gruppo avevano dovuto
scotomizzare le proprie emozioni per sopravvivere a un dolore e a
delle perdite “senza senso”, rimaste tali fin quando due sindacalisti
− Bruno Pesce e Nicola Pondrano − avevano proposto ai casalesi di
unirsi e cercare di ottenere una condanna contro chi l’Eternit l’aveva
creata e portata avanti, pur sapendo che l’amianto era oltremodo
nocivo sia per i lavoratori sia per l’ambiente e per quanti lo respiravano.
Se in un primo momento del lavoro si sono presentati alcuni pazienti
con il mesotelioma, quasi a dirci che erano sopravvissuti − almeno per
il momento − alla malattia e che forse c’era una speranza di cura, il
gruppo ha visto la quasi esclusiva partecipazione dei familiari delle
vittime dell’amianto. L’emozione principale che emergeva
spontaneamente e prepotentemente tra queste persone era soprattutto
una grande rabbia (Rozenfeld, 2012).
Potremmo dire che è stata una vera e propria lotta quella che abbiamo
intrapreso con il gruppo quando inseguivamo la possibilità di “rendere
visibile l’invisibile”, ossia quando esploravamo il dramma di dover
avuto sul singolo e sulla sua famiglia. Se una diagnosi tumorale è di
per sé un evento altamente traumatico, quando la genesi della
patologia è dovuta all’esposizione a un agente ambientale nocivo e
all’azione inumana dei proprietari di una fabbrica, la qualità
dell’esperienza vissuta si connota ancor più negativamente (Varvin,
2013a). Essa porta in campo emozioni intense che, a causa del
carattere di imprevedibilità, incomprensibilità e drammaticità
dell’insorgere della malattia, mettono a dura prova le capacità del
singolo. Per difendersi dall’irruenza distruttiva del trauma, il soggetto
cerca allora strategie che gli consentano di sopravvivere psichicamente
all’evento, strategie che se da un lato mirano a evitare il dolore che
deriverebbe da una nuova esposizione al trauma, dall’altro
rappresentano “tentativi abortiti di mentalizzare e integrare le esperienze
traumatiche all’interno di un ambiente interno e/o esterno percepito come
minaccioso” (Rosenbaum & Varvin, 2007).
Come vittime, le persone che incontravamo nel gruppo avevano dovuto
scotomizzare le proprie emozioni per sopravvivere a un dolore e a
delle perdite “senza senso”, rimaste tali fin quando due sindacalisti
− Bruno Pesce e Nicola Pondrano − avevano proposto ai casalesi di
unirsi e cercare di ottenere una condanna contro chi l’Eternit l’aveva
creata e portata avanti, pur sapendo che l’amianto era oltremodo
nocivo sia per i lavoratori sia per l’ambiente e per quanti lo respiravano.
Se in un primo momento del lavoro si sono presentati alcuni pazienti
con il mesotelioma, quasi a dirci che erano sopravvissuti − almeno per
il momento − alla malattia e che forse c’era una speranza di cura, il
gruppo ha visto la quasi esclusiva partecipazione dei familiari delle
vittime dell’amianto. L’emozione principale che emergeva
spontaneamente e prepotentemente tra queste persone era soprattutto
una grande rabbia (Rozenfeld, 2012).
Potremmo dire che è stata una vera e propria lotta quella che abbiamo
intrapreso con il gruppo quando inseguivamo la possibilità di “rendere
visibile l’invisibile”, ossia quando esploravamo il dramma di dover