Page 54 - Il vaso di Pandora XXII n.2 2014
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soggettiva. E quanto – ci si può domandare – il suo tralasciare, il non
raccogliere questo o quello, più che una scelta vera e propria, magari
implicita, non rappresenti piuttosto una sua personale, più o meno
momentanea, idiosincrasia, un emergere sul versante dell’analista di
quel far finta di niente, di quel girare la testa dall’altra parte (turning a
blind eye) che Steiner (1985) ha descritto nel paziente e nell’opera
letteraria? Certamente com’è fatto il paziente è fondamentale: lo
costituisce nella sua individualità e precede la relazione analitica. Ma è
anche molto importante com’è fatto l’analista. Il dispositivo tecnico, il
setting in particolare, il training personale, la disposizione autoanalitica,
introducono un clivaggio fisiologico tra l’essere dell’analista e il suo
esprimersi, ma la natura essenziale della sua fibra personale intesse
comunque l’ordito della relazione. Il paziente tende ad adattarsi e a
controllare. L’esito dell’interazione di nuovo dipende da come l’analista
è fatto, da quanto è prigioniero di se stesso.
L’analisi è vita, movimento, è collegata alla vita: vita interiore, vita
vissuta, oggi e ieri, qui e fuori. È vita, ma non è “la’’ vita, o un
58 surrogato della vita. Credo che l’analizzando sia aiutato a fare
un’esperienza che porti a differenziare tra la natura dell’analisi e la
natura della vita e, indirettamente, a vivere sempre di più sia l’analisi,
sia la vita anche da come l’analista riesce a coniugare l’espressione di sé,
il suo essere persona, la sua implicita esistenzialità con la dimensione
tecnica e l’aspetto professionale.
Su un altro piano, un aiuto può forse filtrare da quanto l’analista riesce
a sperimentare dentro di sé – insieme – la difficoltà del vivere e la
possibilità di cavarsela. Con una certa simpatia per il se stesso in
difficoltà, nonostante tutto.
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