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Lo stato attuale della terapia delle psicosi

Lo stato attuale della terapia delle psicosi

I. Carta, C. Elia, L. Ferrannini, P. Fornaro, G. Giusto, N. Goldschmidt, P. Pisseri

1992 Edizioni La Redancia
COD: R004
€ 5,16



Introduzione di Franco Giberti

Terapia e psicosi.
Note preliminari al problema integrativo
 Discutere la situazione attuale della terapia delle psicosi rappresenta Certamente per ogni psichiatra un dovere ineliminabile ed essenziale, nel processo continuativo di aggiornamento scientifico e di formazione professionale richiesto proprio dallo sviluppo ormai in atto da molti anni, sviluppo spesso tumultuoso e non sempre ben valutabile ai fini applicativi e comparativi. Il clima attuale della terapia delle psicosi fa emergere un bisogno di compatibilità, di coesistenza e di collegamento fra i diversi e numerosi (troppi?) “modi” o mezzi curativi, ne appare agevole – anche teoricamente -orientarsi nella massa delle pubblicazioni, riviste, monografìe, oggi disponibili.
Basti accennare: 1) al problema della selettività degli psicofarmaci in funzione sintomatologica (neurolettici “elettivi” per l”anergia, i sintomi “negativi” o ansiolitici per i “diversi” tipi di ansia, etc.), 2) all’attenuazione di contrapposizioni curative spesso artificiose (qui i farmaci, là la psicoterapia, altrove la riabilitazione, etc.), 3) alla selva labirintica delle innumerevoli “tecniche” psicoterapiche che tanto sembrano attingere al “narcisismo delle piccole differenze”. Emerge altresì la mancanza di criteri (?) per affrontare la complessità. 
Mi limiterò pertanto a considerazioni introduttive più come stimoli alla discussione che come affermazione di punti definitivi, in vista di una possibile o auspicata convivenza “cooperativa” di siffatta molteplicità apparentemente o realmente spesso frammentaria e anche disomogenea, nella prospettiva di un impiego nella clinica quotidiana. 
La “pratica” della integrazione: a prescindere dalle molteplici definizioni di ordine lessicale, epistemologico, psicodinamico e psicosociale del termine integrazione (Giberti), essa appare il problema più attuale e impellente di fronte alla abbondanza di indirizzi teorici, di modelli esemplificativi, di “tecniche” ed esperienze differenziate presenti o possibili oggi nelle sedi di attuazione concreta della prassi integrativa della terapia psichiatrica. 
Basti pensare alla complessità di tale compito armonizzante, complessità che – nella realtà attuale dei servizi psichiatrici – ha posto in primo piano il problema del passaggio dalla terapia tradizionale di rapporto duale ai trattamenti impostati nel e con il gruppo curante; complessità altresì connessa alla struttura composita delle équipes, con operatori di diversa matrice formativa e di differenti funzioni e ambizioni. 
Complessità che, già dal primo incontro con lo psicotico, appare evidente per la sua multiforme natura e varietà di presentazioni semeiotico-cliniche e psicosociali, richiedendo un impegno implicante conoscenze estese dalla medicina alla psicopatologia, dalla psicodinamica alla farmacologia, dalla organizzazione amministrativo-assistenziale alla “cultura” ambientale e familiare. 
L’incontro con lo psicotico, comunque avvenga, comporta quasi sempre una sorta di “redde rationem”, una “prova” critica problematica non solo per la preparazione dell’addetto ai lavori ma specialmente per le sue personali capacità di intuizione e di partecipazione di fronte ad una vicenda così penosa ed insolita. Le “superspecializzazioni” isolate (prive o non inserite in un approccio “umano” e globale, di sintesi e nel contempo di una articolazione verso qualificazioni specifiche) falliscono o sono insufficienti: la “saldatura” non effimera ne contraddittoria, fra i tré momenti della “cura” (psicofannacologica, psicoterapeutica, riabilitativo-psicosociale) è tuttora, spesso, un procedimento incompleto, ma soprattutto relativo più al “clima” ideologico- culturale prevalente che alla teorica o reale disponibilità dei mezzi terapeutici applicabili. 
L’integrazione appare allora un processo nel quale poter far coesistere in modo non conflittuale non tanto modelli precostituiti, formule rassicuranti o strumenti “tecnici” di ordine pluridisciplinare e pluriprofessionale, quanto conciliare le fruibilità decisionali con l’esperienza metodologica e clinica attraverso quella validità e quella coerenza critiche, quella plausibilità e pregnanza dei rapporti interpersonali nel gruppo e nell’ assistito, così essenziali specie per la applicazione terapeutica. Da queste premesse deriva, proprio al fine di calibrare meglio l’ausilio terapeutico, la necessità della valutazione dell’ambiente terapeutico”. 
Esser sufficientemente consapevoli delle forze, dei mezzi, delle modalità e finalità presenti ed interagenti fra i diversi mèmbri del gruppo curante di fronte allo psicotico è senza dubbio una meta ideale, soprattutto se essa è rivolta all’ “attualità”, al momento storico-esperienziale che il gruppo attraversa e di cui – proprio perché il processo collaborativo-integrativo è in fieri – non è facile cogliere immediatamente o compiutamente sia gli aspetti positivi sia le valenze collusive, emissive e regressive nell’hic et nunc diagnostico-terapeutico o nella cognizione diacronica dei cambiamenti (nei curanti e nei pazienti). 
Com’è noto, vi sono molte teorie al riguardo, nonché molteplici “tecniche” valutative, più nella ricerca sperimentale che nella realtà clinica quotidiana. 
La tentazione pedagogica, specie se quantificante e oggettivante in questa ultima situazione, appare allora quanto mai suggestiva e impellente; non per nulla si sono sviluppati così intensamente i “criteri” diagnostico-differen-ziali (tipo DSM 3) e i diversi momenti “tecnici”, sociometrici, psicodinamico-relazionali, socioanaliticì e gruppali: obiettivare, distribuire, individuare compiti e personale adatto (quando c’è) è un lavoro necessario, ma non certo sufficiente. Sono sempre preminenti (in maniera palese o occulta) gli interrogativi: che cosa è il gruppo curante? Chi, cosa e come vuole o “deve” curare? Quali sono le finalità comuni e quelle individuali o differenziate nel prendersi cura e nell’assistere? Com’è distribuita o funziona la leadership? Gli interrogativi potrebbero continuare all’infinito, ma assai probabilmente il quesito fondamentale sembra – almeno per i ‘ ‘gruppi” (o équipes) psichiatrici – risiedere nella reale possibilità di accordo e di congruenza fra la consapevole ed individuale disponibilità funzionale dei singoli operatori e l’intenzione finalizzata e collettiva del lavoro assistenziale: il gruppo – prima di realizzare una tale concordanza operativa – si troverà di fronte diverse situazioni “interne” di pericolo, come presenza di ideologie contraddittorie, un eclettismo empirico-tecnologico, un procedere parallelo per vie non comunicanti, un olismo unanimistico e così via, che esprimono tentativi di adattamento e difesa dalla màinofobia originaria dell’esercizio psichiatrico. 
La sofferenza emotiva – sia pure in gradi, tempi e modi diversi – impregna (come tutti sappiamo) sia gli operatori che i pazienti (e i loro rispettivi famigliari) e pertanto la “cura” dello psicotico (proprio perché egli mette in moto o in corto circuito pressioni e valenze pesanti e coinvolgenti “l’altro”) non può disgiungersi da quella di chi assiste ed è essenziale – come la psicoanalisi indica – la ricerca di conoscere almeno in parte la realtà interiore di entrambi in ogni relazione terapeutica. Di questa, gli aspetti più conturbanti, perché per lo più inconsci e meno palesi (ma più pericolosi) sono spesso la competitività più o meno occulta intra e interprofessionale e la conflittualità di rapporti “gerarchici” per le istanze onnipotenti-scissionali sottostanti con “effetti” di pseudopartecipazione, idealizzazione, oblativismo, etc. 
Ormai l’esperienza acquisita (ma tutt’altro che terminata o terminabile) suggerisce e ribadisce – al di là degli ineludibili momenti “tecnici” di oggettivazione – la necessità di poter consapevolizzare e conoscere il più possibile cosa intercorre “dentro”, nella cura, nonché nella triade psicotico-singolo operatore-gruppo. 
In operazioni controllabili e adeguate di psicoanalisi applicata, ausili preziosi appaiono quelle modalità suggerite dalla concezione di campo istituzionale (Correale) o derivanti dalla meditazione teorica e sistematica di una sorta di “comparative anàlysis” (Wallerstein). 
L’attuale diffusione nei gruppi di lavoro psichiatrico della supervisione psicoanaliticamente orientata può renderci edotti dei limiti e delle possibilità delle attività pluriprofessionali e delle corrispondenti interazioni etero ed autocentrate: verranno così meglio chiariti e intesi pregi e difetti del lavorare in gruppo, della “posizione” del singolo in esso, nonché l’inserimento e la profìcua utilizzazione dei nuovi mezzi (dalle impostazioni e revisioni psicofarmacologiche alle “tecniche” di riabilitazione e di approccio psicoterapico) favorendo formazione e accrescimento di quel tessuto connettivo indispensabile che è la “cultura” terapeutica specifica e peculiare, spesso irripetibile, di ogni istituzione. 
Nel congratularmi con gli Organizzatori di questo Convegno, va ascritto al merito dei contributi presentati aver messo a fuoco – alla luce delle importanti esperienze liguri – i punti nodali dell’attualità terapeutica nelle psicosi, mostrando come la scelta e l’articolazione applicativa dei mezzi curativi non può prescindere dalla conoscenza aggiornata dei progressi innovativi, in continua espansione della nostra disciplina, sia nel settore biomedico che in quello delle Scienze Umane. 
 
Note bibliografìche 
Correale A. (1991): II campo istituzionale. Boria Ed., Roma 
Giberti F. (1991): I problemi integrativi in Psichiatria. “N.P.S. Centro Praxis, voi. XI, 29-42. 
Wallerstein R.S. (1992): Comments on Psychoanalysis, pure and applied. Intem. Rev. PsychoAnal. 1992.


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