Libri

Le strutture intermedie in psichiatria, dalla formazione alla pratica

Le strutture intermedie in psichiatria, dalla formazione alla pratica

A cura di Giovanni Giusto, Nicoletta Goldschmidt

1991 ECIG
COD: R002
€ 10,33



“L’arte vera e grande non s’afferma con i proclami, ma si realizza nel silenzio”. M. Proust
L’esigenza di confronto tra diverse realtà operative, il desiderio di comunicare convinzioni sulla terapia del paziente psicotico maturate in anni di esperienza, pur partendo da modelli culturali di riferimento dissimili, ha dato l’impulso all’organizzazione della giornata di studio sulle “strutture intermedie in psichiatria” da cui ha origine questo libro. Il volume è arricchito da scritti di colleghi che si sono sentiti coinvolti, avendo partecipato, in questo proposito.
Al lettore apparirà evidente una certa disomogeneità tra i diversi contributi; ciò deriva dall’esperienza diversa, dal diverso referente culturale e non ultimo da una diversa cultura personale, cioè da un approccio ai problemi psichiatrici derivante da un iter formativo peculiare (formazione psicoanalítica, sístemico relazionale, psichiatrico sociale, filosofico esistenziale, ecc … ). Esistono però, a nostro avviso, degli elementi fondamentali che rappresentano il connettivo del libro: la curiosità degli autori, il desiderio cioè di conoscere attraverso la relazione, l’umanità del paziente; il bisogno di adoperarsi con sforzi di fantasia ed attività pratica per creare dei contenitori della follia che non siano statici e devitalizzati, ma tali da permettere di creare nuove identità, nuovi individui. In definitiva quello che vorremmo definire come entusiasmo creativo, qualcosa che recupera una dimensione artistica (o perlomeno artigianale) all’operare psichiatrico. 

Giovanni Giusto, Nicoletta Goldschmidt  
Premessa di Nicoletta Goldschmidt – Giovanni Giusto 

L’esperienze, le riflessioni, le vicende di cui si scrive nei diversi capitoli di questo libro sono frutto di una storia, ancora breve, ma per molti (non certo per tutti) intensa, che riprende a svilupparsi dopo una frattura. Il no al manicomio, alla lungodegenza, all’abbandono, all’oblio della non presenza, certo sono stati anche “ideologici”, ma, per chi ha cercato di misurarcisi, soprattutto una esperienza pratica di confronto con il problema della cura, dell’assistenza e della presenza accanto a noi dei malati di mente. Le “strutture intermedie” che, quando i manicomi funzionavano ancora come grandi e solidi contenitori della follia, erano pensate come la possibilità di aprire una breccia nella compattezza delle mura e di creare luoghi di vita per una umanità dimenticata e schiacciata dalla segregazione, ripensate nella pratica del dopo-riforma nascono la esigenze in parte diverse. La riforma ha prodotto una sorta di scissione con la storia passata e ha posto di fronte al nuovo: l’incontro con lo psicotico in un contesto finalmente diverso e libero dalle pesantezze e dalle rigidità istituzionali (almeno da quelle che ci eravamo lasciati alle spalle); e poi operatori nuovi: psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori arrivati senza “memoria storica” ai nuovi servizi, con la loro voglìa di fare, di fare bene, ma anche tante incertezze, insicurezze, timori. Curare e prendersi cura di uno psicotico è un compito difficile e complesso, che richiede non solo buona volontà e capacità personali di disponibilità ed empatia, ma anche conoscenze, formazione, esperienza. La complessità di questo compito richiede in genere molto tempo e disponibilità a mettersi in gioco in una relazione ad “alta tensione emotiva” con la possibilità e il rischio, a volte, di essere coinvolti in situazioni che, mobilitando emozioni proprie di tipo arcaico, possono creare stati d’animo di confusione, perplessità, disagio. Ovviamente ciò porta con sé il rischio che per evitare di “stare male” l’operatore impegnato nel compito di cura, reagisca per difendersi o allontanandosi dal paziente o assumendo con lui degli atteggiamenti inconsciamente aggressivi. Non vogliamo qui soffermarci sui movimenti transferali e controtransferali che si incontrano nella terapia con il paziente psicotico, ma fare solamente alcune considerazioni di metodo. Il nostro punto di osservazione è quello di psichìatri che hanno operato nel passaggio tra vecchio e nuovo, ìmpegnandosi attivamente per la costruzione e la crescita dei servizi territoriali, confrontandosi dunque con questo particolare contesto, la cui articolazione multidisciplinare con presenza di figure professionali diverse, rende indispensabile una organizzazione del lavoro dì gruppo. La psicoterapia e la “presa in carico” dello psicotico ‘ nell’attività di una équipe, non può limitarsi al classico rapporto individuale terapeuta-paziente, raramente utile data la gravità dei nostri assistiti, ma deve articolarsi come lavoro di gruppo, essere espressione dei “clirna” che il gruppo stesso riesce a generare al suo interno ed a ridare al paziente sotto forma di “esperienze emotivamente significative”. La relazione individuale, che coinvolge e mette in gioco ogni singolo operatore, deve trovare uno spazio di fluida ed utilizzabile comunicatone con le altre figure professionali coinvolte e partecipanti ad un obiettivo comune e condiviso. Potremmo, schematizzando a scopo esemplificativo, parlare di rapporto paziente-terapeuta ±:w gruppo di lavoro. Le frecce stanno ad indicare l’interazione tra il terapeuta ed il gruppo di lavoro, che svolge anche, nei confronti del primo, una funzione supportiva, nel senso di consentire allo stesso di comunicare quella serie di emozioni a volte difficilmente tollerabili a cui ci riferivamo prima, permettendone la “digestione”. L’uso di questo termine certamente improprio letteralmente, vuole rendere una immagine che abbiamo più volte osservato quando un operatore “ripieno” di emozioni viene nel gruppo e ne parla: questa ri- pienezza spiacevole, perché eccessiva, riesce via via a diventare tollerabile, come nel processo fisiologico della digestione. Questa funzione è, a nostro avviso, estremamente importante e ci riporta al problema della formazione degli operatori psichiatrici, che è il secondo tema che vorremmo brevemente trattare dal punto di vista dell’organizzazione di un servizio. Quando si parla di formazione, si fa in genere riferimento a quella serie di informazioni tecniche specifiche, accompagnate dall’aspetto esperienziale diretto, con il quale si tende a permettere all’operatore di avere a disposizione lo strumento principe della professione: quello emotivo. Gli operatori dei servizi psichiatrici si sono dovuti quasi sempre “formare in itinere” nel lavoro quotidiano con fatica, delusioni, frustrazioni, ma anche voglia e curiosità di capire, apertura al cambiamento, alla speranza. Fin quando si tratta di psichiatri e psicologi le motivazioni personali di una scelta rendono la necessità della formazione e del rapporto con il paziente qualche cosa di pressoché inevitabile, in quanto ricerca personale; l’aspetto puramente tecnico si confonde quindi inevitabilmente con aspirazioni, problemi, curiosità. Se ciò sortisca dei vantaggi dal punto di vista organizzativo, non sapremmo dire, anche se la nostra esperienza ci porta ad avere, almeno in alcuni casi, varie perplessità. Il problema cambia e si diversifica, quando si tratta di infermieri professionali, che in genere si trovano a lavorare nei Servizi di Salute Mentale non per scelta specifica, ma per casualità od opportunità (turni di lavoro più semplici, meno impegno manuale, ecc … ). Chi ha compiti di conduzione di una équipe deve omogeneizzare la cultura del gruppo di lavoro e fornire all’infermiere degli strumenti operativi in grado di consentirgli di affrontare il problema della cura in psichiatria, che è ben diverso dalla cura nel restante campo medico. L’attivazione delle strutture intermedie ha posto alcuni problemi peculiari. Quando all’interno del gruppo generale degli operatori occorre selezionare gruppi più ristretti per attività specifiche, può verificarsi, accanto ad una corsa al “nuovo” per reale interesse o per logoramento ed insoddisfazione, anche un rifiuto ed una resistenza, più o meno razionalizzabili, ma che comunque non possono essere semplicemente accettati, in quanto certi compiti e certe funzioni non possono essere lasciati alla sola volontarietà del singolo. Analogamente su un sottile crinale tra scelta volontaria e necessità di non sprecare risorse e opportunità di indubbia utilità, si è posta la partecipazione ai gruppi formativi, specie quando questi esulino dalla mera informazione e richiedano un impegno personale ed emotivo, che non è previsto in nessun contratto di lavoro. E’ necessario quindi fare un delicato lavoro sulle motivazioni, che non sia manipolatorio o cooptativo, ma che tenga anche presente il principio di realtà che il servizio ha un compito da svolgere, un lavoro ben preciso da fare, e che la formazione che viene offerta, o le nuove modalità di intervento che si stanno mettendo a punto, sono risorse che devono essere utilizzate al meglio. Nelle strutture intermedie è soprattutto il così detto “personale di base” a trovarsi, spesso assai giovane ed alla prima esperienza lavorativa, a condividere il tempo e lo spazio con i pazienti, e proprio in quelle situazioni più delicate in cui il confine tra quotidianità e terapeuticità si intreccia nel modo più stretto e dove è più difficile ritrovare la giusta distanza e definire chiaramente i ruoli e le posizioni. f~ necessario, quindi, proprio a partire da un ascolto nel gruppo, in un clima di accoglienza e sicurezza, delle esperienze più confusive e frustranti, far crescere una motivazione autentica e cosciente ad utilizzare i momenti formativi come occasione di maturazione professionale e personale. La circolarità della comunicazione attraverso l’istituzione di regolari riunioni nelle varie équipes, la discussione in gruppo dei programmi terapeutici con progetti a breve, medio, lungo termine, insieme alla puntuale verifica del loro andamento per mezzo della discussione dei casi, sono diventati strumenti di lavoro del gruppo e hanno contribuito a creare una cultura omogenea dello stesso. Ci preme sottolineare l’aspetto dialogico come punto centrale della maturità individuale e quindi anche del gruppo di lavoro che per definizione (W. Bion) è composto da soggetti con una struttura di personalità sufficientemente solida per far fronte all’incombenza del compito che abbiamo definito: prendersi cura del soggetto psicotico. Nella nostra esperienza siamo ricorsi anche ad alcuni professionisti esterni al servizio, che hanno condotto gruppi ai quali hanno partecipato tutti i diversi tipi di professionalità. Si è trattato di esperti che avevano una formazione psicoanalitica o sistemico relazionale, indirizzi che rappresentano perciò i due referenti culturali del servizio nel suo insieme. La formazione non è stata, nel nostro caso, una imposizione, ma una naturale risposta ai problemi che gli operatori si trovano ad affrontare giornalmente e che hanno fatto nascere dal dentro il bisogno di “chiarirsi le idee”. Abbiamo quindi visto rovesciato il classico rapporto docentediscente, nel senso che la necessità del formatore diventava espressione della crescita del servizio, intesa come articolazione di compiti e funzioni sempre più specializzate (appartamenti protetti, centro diurno, ambulatori esterni, visite domiciliari). Le strutture intermedie, in particolare, pongono al centro della riflessione il problema del tempo e del luogo della cura. Un servizio che sceglie di non selezionare la propria utenza, che continua a farsi carico dei pazienti anche quando non guariscono, o forse sarebbe meglio dire, non migliorano, si trova a riflettere sui limiti dello spazio ambulatorio o dello spazio domicilio, come luogo privilegiato dei nostro intervento. Si interroga sull’enorme miseria, e non solo materiale, di molti dei suoi assistiti: miseria relazionale, povertà di scambi, di opportunità, di risorse umane da attivare. li tempo di relazione e di animazione che può essere dedicato al paziente appare assai poco: non modifica una situazione rigida, scandita da ritmi sempre uguali, ripetitivi, apparentemente immodificabili, vuoti: un buco dove tutto viene ingoiato e apparentemente sparisce. Ci sono pazienti che non escono più di casa, che non hanno più relazioni all’infuori di una ristrettissima cerchia familiare, che trascorrono il tempo prevalentemente a letto o nella propria stanza, che come uno di essi ha detto un giorno “hanno perso l’abitudine” a fare delle cose assieme ad altre persone. E’ per questi pazienti soprattutto che le strutture intermedie vengono pensate come luoghi e tempi diversi per la cura, per la riabilitazione, ma anche, per la vita. “Centro Diurno” e “Appartamento protetto”, che per certi versi sono stati anche slogans lungamente ripetuti (bisogna farli ma: “non ci sono le strutture” “manca il personale” “non abbiamo le risorse”), cominciano ad assumere contorni reali, via via che gli operatori iniziano a popolarli, prima nella fantasia e poi nella realtà, di pazienti e di … sé stessi. Si possono cosí affrontare cambiamenti di prassi operativa, confronto con nuovi modelli teorici, variazioni del nastro lavorativo, disponibilità a lavorare in gruppo con un gruppo. Il confronto ed il dialogo non sono però solo con il supervisore esterno, ma con altre realtà sociali ed istituzionali. Di queste, importantissimo è stato ed è il quadro politico amministrativo di riferimento, che non è stato sempre favorevole, e ciò sia perché i servizi che si occupano della diversità, della follia, della marginalità sociale devono, per essere efficaci, essere sì, ben organizzati, ma anche elastici, duttili, modulabili e questo non è sempre così immediatamente comprensibile da un apparato amministrativo burocratizzato, formalista, lento; sia perché l’interesse e l’adesione partecipe ad affrontare il problema posto dall’assistenza ai malati di mente si è rivelato più come qualcosa legato alla personalità e alla sensibilità individuale di alcuni amministratori. indipendentemente dal colore politico, che sentito come atto dovuto alla collettività, allo stesso modo del buon funzionamento dell’ospedale generale o di un centro di prenotazione. Non è sempre facile poi far comprendere che una buona assistenza psichiatrica non si può fare in “economia”: di finanziamenti, di risorse, di personale, di investimenti sulla formazione. In questo contesto la storia dei servizi psichiatrici non è lineare e soprattutto non è sempre omogenea: la produzione scientifica, di cui questo libro è un esempio, più che un tentativo di teorizzazione, appare come la riflessione su esperienze, su iniziative non sempre assimilabili: un tentativo di mettersi a confronto, di trovare punti di identità ed anche di diversità, di capire meglio. 1 problemi peculiari che si pongono nel servizio pubblico, con le strutture intermedie, solo in parte possono trovare confronto con esperienze codificate, ma maturate in altri contesti. Ben diverso è infatti il lavoro in una realtà organizzativa dove esista ancora il manicomio, dove lo scacco terapeutico possa venire ad un tempo giustificato ed assorbito, o laddove esperienze “alternative” si affidino all’iniziativa personale di gruppi di operatori fortemente motivati, che si coagulano intorno ad un progetto condiviso a priori. L’esperienza nei servizi italiani del dopo riforma ha, a nostro avviso, caratteristiche di originalità affatto peculiari, anche nel suo nascere e svilupparsi nel sistema delle piccole repubbliche separate che sono le UU.SS.LL. : di qui il desiderio e l’entusiasmo per tutti i possibili momenti di conoscenza, di confronto e di riflessione.